L’immunità parlamentare è l’ultimo argine
Come diceva l’astuto personaggio di Agatha Christie, Hercule Poirot: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. In Italia, ogni volta che il Potere legislativo tenta di riformare la giustizia, fioccano inchieste che coinvolgono la politica, indipendentemente dal colore del governo.
La riforma costituzionale che separa le carriere tra giudici e PM e rivoluziona la nomina del CSM non fa eccezione. È una costante che dura da oltre trent’anni, confermata dalle rivelazioni di Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione magistrati, che ha ammesso l’abitudine di alcune toghe politicizzate a intervenire nella sfera politica per ostacolare leggi sgradite.
Il punto di svolta: l’abolizione dell’immunità parlamentare
L’origine di questa deriva affonda nel 1993, quando l’ondata populista di Tangentopoli portò all’abolizione dell’immunità parlamentare. Quella scelta, dettata dalla paura, abbatté il muro che separava magistratura e politica, squilibrando i poteri dello Stato. Da allora, a seconda delle stagioni politiche, il potere giudiziario ha spesso travalicato i suoi confini.
Perché reintrodurre l’immunità
Sebbene l’autore sia favorevole alla separazione delle carriere, ritiene che la reintroduzione dell’immunità parlamentare, nei suoi termini originari, sia l’unica vera strada per ripristinare l’equilibrio voluto dai padri costituenti. Personalità come Umberto Terracini e Costantino Mortati ne furono convinti sostenitori.
Valore simbolico e necessità di consenso
Il ripristino dell’immunità avrebbe un forte valore simbolico, capace di chiudere una stagione storica dannosa per politica e magistratura. Tuttavia, dovrebbe essere un’operazione condivisa da una larga maggioranza per evitare strumentalizzazioni. Oggi, paradossalmente, forze politiche come la Lega – che un tempo spinsero per l’abolizione – sono tra le più convinte sostenitrici della sua reintroduzione.